Gli obiettivi fondamentali e riconosciuti da tutti i professionisti che si dedicano alla cura del diabete sono: ottimizzare il controllo metabolico, prevenire le complicanze acute e croniche e consentire ai pazienti la miglior qualità di vita possibile con un costo accettabile. L’esigenza di insegnare ai diabetici la gestione in proprio della malattia era già sentita come una parte importante del trattamento clinico nel 1930, ma solo all’inizio degli anni Ottanta, con lo sviluppo e l’immissione in commercio di tecniche pratiche e affidabili per la misura della glicemia capillare, il monitoraggio glicemico è divenuto una realtà e ha permesso passi da gigante verso l’obiettivo del controllo metabolico ottimale. La comparsa di tali presidi ha rivoluzionato infatti la cura del diabete, così come nel 1921 la scoperta dell’insulina aveva cambiato qualità e aspettative di vita di tanti diabetici e ha permesso, con il miglior controllo delle escursioni glicemiche, una riduzione delle complicanze acute e croniche della malattia. La possibilità da parte del paziente di controllare a casa propria, anche più volte al giorno, il tasso glicemico, in altre parole l’automonitoraggio, non è però sufficiente se ad esso non si associa la capacità di interpretare i risultati e mettere in atto gli interventi terapeutici (su alimentazione, attività fisica, farmaci) volti a migliorarli, cioè se non vi è autocontrollo, o meglio ancora, autogestione della malattia. I vantaggi di un intensivo controllo dei valori glicemici sulla prevenzione e sull’evoluzione delle complicanze croniche micro e macroangiopatiche del diabete sono stati evidenziati in studi longitudinali su popolazioni di diabetici di tipo 1 e 2, quali il Diabetes Control and Complications Study, lo Stockolm Diabetes Intervention Study e il Kumamoto Study, nei quali l’automonitoraggio della glicemia era una componente fondamentale della terapia, anche se non la sola. L’importanza dell’autocontrollo nei diabetici di tipo1 non è da qualche tempo più in discussione e ha portato ad un notevole miglioramento della quantità e qualità della vita; più controverso invece è il suo reale vantaggio nel diabetico di tipo 2, anche alla luce dei risultati dello U.K. Prospective Diabetes Study, che ha praticamente raggiunto lo stesso obiettivo scientifico di migliorare il controllo glicemico e le complicanze a lungo termine senza richiedere l’automonitoraggio della glicemia, e di numerosi altri studi che non hanno dimostrato relazione tra frequenza dei test glicemici e valori dell’emoglobina glicata. L’automonitoraggio della glicemia nel diabete di tipo 2 è quindi ancora motivo di dibattito; la stessa Associazione dei Diabetici Americani (A.D.A.) nelle sue raccomandazioni è categorica sulla sua importanza nei pazienti trattati con insulina, molto meno in quelli in terapia con ipoglicemizzanti orali o sola dieta ed è stato sottolineato anche che il suo uso indiscriminato può esitare in uno spreco di risorse e danni psicologici. L’educazione delle persone con diabete all’autogestione è diventata un compito fondamentale del diabetologo e del suo staff e lo ha spinto a modifiche nell’organizzazione dell’assistenza volte ad assegnare a questa attività essenziale il tempo indispensabile e non sempre compatibile con le sempre più esigue disponibilità concesse dal Servizio Sanitario.
L’autogestione della malattia è qualcosa di più dell’automonitoraggio della glicemia, non si limita ad una valutazione passiva del tasso glicemico in determinati momenti della giornata, ma prende spunto da tali valori per mettere in atto meccanismi di correzione immediati e a distanza per mantenere un soddisfacente equilibrio metabolico; richiede quindi una partecipazione attiva del paziente ed un’educazione adeguata ad affrontare i problemi evidenziati dai test.
I valori della glicemia sono infatti influenzati da molti fattori, quali terapia farmacologica, alimentazione, esercizio fisico, che sono strettamente collegati fra loro e il diabetologo e la sua équipe debbono affrontare con i pazienti un percorso educazionale che preveda una corretta e precisa informazione sulla malattia e sul suo trattamento, con esame di tutte le situazioni che possono portare allo scompenso metabolico e sulle contromosse da attuare per mantenere le oscillazioni glicemiche entro limiti accettabili, pur nell’ambito di una vita non dissimile dai non diabetici. Nei diabetici di tipo 2, per il minore impatto iniziale della malattia sulla qualità della vita e per le variazioni glicemiche molto meno brusche rispetto al tipo 1, è più difficile ottenere un’adesione ad un programma di autogestione, che viene vissuto dal paziente come un netto peggioramento della propria qualità di vita, con restrizioni e cambiamenti difficili da accettare, quali il controllo della propria alimentazione, il regolare svolgimento di attività fisica e la noiosa puntura di un dito, a volte in più momenti della giornata. In pratica i diabetici di tipo 2 si chiedono perché cambiare in peggio il proprio stile di vita quando si sentono in pieno benessere e non riescono ad intravedere i vantaggi futuri derivanti dai sacrifici attuali: preferiscono l’uovo oggi alla possibile gallina domani. Un recente studio multicentrico italiano, coordinato dall’Istituto Mario Negri Sud, ha valutato l’impatto dell’automonitoraggio della glicemia sul controllo metabolico e sulla qualità della vita nel diabete tipo 2. Le conclusioni di tale studio sono state che, nonostante l’aumento negli ultimi anni di tale pratica, solo nei pazienti trattati con insulina e in grado di aggiustare autonomamente le loro dosi di ormone esiste una correlazione fra miglior controllo metabolico e automonitoraggio della glicemia, supportando così il concetto che tale pratica è efficace solo quando è utilizzata per l’autogestione della malattia. Nello stesso studio l’analisi concernente la qualità percepita della vita aggiunge un altro elemento importante contro l’uso indiscriminato dell’automonitoraggio poiché esso è spesso associato a più alti livelli di frustrazione, depressione e preoccupazione, derivanti probabilmente dai risultati insoddisfacenti che i pazienti non sono in grado di migliorare. L’autocontrollo della glicemia può assumere un ruolo importante nel migliorare il controllo metabolico e la qualità della vita del diabetico di tipo 2 se inserita in un’ampia strategia educazionale indirizzata alla promozione di una sempre maggiore autonomia nella gestione della malattia. Il compito del medico diabetologo è quello di controllare la malattia attraverso il paziente, attivando tutte le strategie che portano ad una sua accettazione attiva. Il raggiungimento di tale risultato non può prescindere da una valida relazione medico-paziente, basata su una efficace comunicazione, sulla capacità di vedere i problemi dal punto di vista del malato e sull’identificazione di tutte le possibili situazioni a rischio di errore, per proporre soluzioni alternative, identificare obiettivi semplici e accessibili e operare per la risoluzione delle difficoltà che via via si presentano.
Il tutto evitando che il medico diventi il gestore del paziente, ma al contrario facendo sì che il diabetico si senta libero, capace e legittimato a prendere decisioni autonome.
Tale percorso non può che portare ad un maggior benessere del diabetico perché gli permette di affrontare modifiche dell’alimentazione e dell’esercizio fisico con appropriate variazioni della terapia, prevenire e/o controllare episodi di scompenso, gestire situazioni a rischio come malattie intercorrenti, correggere rapidamente i propri errori. Va però ricordato che nel diabetico di tipo 2 per la maggiore stabilità dei valori glicemici, sono spesso sufficienti pochi test (1 stick al giorno), mentre è fondamentale il controllo sullo stile di vita, in particolare alimentazione ed esercizio fisico, di cui l’automonitoraggio deve essere la guida, insieme alla bilancia quando vi sia la presenza di un elevato indice di massa corporea.
Mario Parenti
Medicina Generale II Servizio Aggregato di Diabetologia
Ospedale degli Infermi – Rimini
da NovoDiabete
Fonte Portale Diabete